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57° Rapporto Censis: italiani sonnambuli, vecchi e spaventati

Il Rapporto sulla situazione sociale del Paese mostra la fotografia di una società cieca dinanzi ai presagi. La vulnerabilità si insinua anche nei legami

 

Giunto alla 57a edizione, il Rapporto Censis interpreta i più significativi fenomeni socio-economici del Paese nella fase che stiamo vivendo. Le Considerazioni generali introducono il Rapporto descrivendo una società con molte scie, ma nessuno sciame, con una direzione, ma pochi traguardi, in cui i meccanismi di mobilità sociale si sono usurati. Nella seconda parte, La società italiana al 2023, vengono affrontati i temi di maggiore interesse emersi nel corso dell’anno, l’economia in rallentamento dopo la fine dell’espansione monetaria, i nuovi fermenti e le inquietudini, fino a delineare il ritratto di una società di sonnambuli, ciechi dinanzi ai presagi. Nella terza e quarta parte si presentano le analisi per settori: la formazione, il lavoro e la rappresentanza, il welfare e la sanità, il territorio e le reti, i soggetti e i processi economici, i media e la comunicazione, la sicurezza e la cittadinanza. Nell’ipertrofia emotiva in cui la società italiana si è inabissata, le argomentazioni ragionevoli possono essere capovolte da continue scosse emozionali. Tutto è emergenza: quindi, nessuna lo è veramente.

Un Paese che invecchia sempre più, un Paese di “sonnambuli” che restano inermi davanti ai presagi e in cui si fanno strada paure a 360 gradi: dal tracollo economico, all’ambiente alla guerra mondiale. È una fotografia preoccupante e inquietante per l’Italia quella scattata dal 57esimo rapporto del Censis dove al centro c’è il peso del calo demografico (nel 2050 l’Italia avrà perso complessivamente 4,5 milioni di residenti e la flessione demografica sarà il risultato di una diminuzione di 9,1 milioni di persone con meno di 65 anni e di un aumento di 4,6 milioni di over 65). Cambiamenti che modificano anche i desideri della popolazione che non è più alla conquista dell’agiatezza, ma alla spasmodica ricerca di uno spicchio di benessere (il 94% rivaluta la felicità che deriva dalle piccole cose di ogni giorno come il tempo libero, gli hobby e oltre l’80% è molto attento alle relazioni personali).

Una tensione tutt’altro che astratta e che possiamo toccare con mano nella domanda di senso delle nuove generazioni, nella domanda di qualità della cura delle famiglie nella domanda di riconoscimento delle comunità spesso dimenticate. Spinte queste che ci segnalano bisogni insoddisfatti ma anche aspirazioni e risorse non comprese: due tratti che non possiamo più separare.

Andare a caccia di bisogni, riuscire a mapparli e intercettarli (purtroppo in numero sempre più esiguo), per poi costruire azioni redistributive, rappresenta un postura di policy sempre più debole e inefficace; anche la crescente benevolenza e apertura alla comunità da parte delle imprese se da un lato è una nota positiva utile ad allargare la condivisione del valore aggiunto oltre le colonne d’ercole degli shareholder, dall’altra non è in grado di rispondere in maniera adeguata alla domanda contenuta nella crescente povertà di speranza che tocca quotidianamente la vita delle persone. 

La vulnerabilità, infatti, si insinua nelle fragilità dei legami, dei fattori endogeni al lavoro, della numerosità dei figli, della salute dei genitori, della geografia dentro cui uno si trova ad abitare. A ciò si aggiunge il peso di “fattori ascrittivi”, ossia condizioni di vita dentro cui uno si trova de facto a vivere (cultura, istruzione, reddito famigliare, ecc.), che impattano in maniera quasi definitiva sulla vita delle persone, stratificando in maniera irreversibile la disuguaglianza, anzi tramandandola come un’eredità.

La patologia che non stiamo curando è quella di una crescente desertificazione e de-mutualizzazione dei rapporti e dei legami. Pur avendo una costituzione che ama e riconosce la libertà dell’individuo in tutte le sue forme sociali, fatichiamo a costruire politiche di reale sussidiarietà e amministrazione condivisa. La normatività giuridica e amministrativa non ha ancora fatto “scalare” quella “comunitaria e sociale” con il rischio di vedere il mondo del Terzo settore, cadere trappola di un nuovo isomorfismo he si presenta con la faccia buona della co-progettazione, dell’erogazione, della convezione, ma che poi produce una omologazione dei tratti distintivi del terzo pilastro.

Un processo tossico non solo per l’identità, ma anche per le sfide in gioco: sfide che richiedono quel “surplus” che solo le motivazioni intrinseche, le relazioni, l’attivazione della cittadinanza, il mutualismo riescono a garantire per poterle affrontare. 

La desertificazione sociale si può curare attraverso un processo di ri-significazione e valorizzazione autentica di quelle relazioni che né stato e né mercato son in grado attivare. La desertificazione sociale (che non si evidenzia solo nell’isolamento, ma anche nella mancanza di riconoscimento) è il terreno su cui prospera l’utilitarismo e su cui viene a consumarsi l’impegno politico e democratico. Da qui la necessità di rilanciare un impegno del terzo settore e l’impresa sociale sui contenuti e non solo sulle forme, sulla democrazia come espressività e non solo come procedura, sulla cura come inclusione e non solo come prestazione, ambendo non solo alla gestione del servizio, ma alla coproduzione di soluzioni buone per la comunità e per il lavoro. Un lavoro corale che chiama in causa nuove alleanze per la trasformazione sociale, un lavoro che rilancia la necessità di aprire le istituzioni (che definiscono le regole del gioco) a nuove governance plurali, un lavoro che va valorizzato tanto nel senso quanto nel suo giusto compenso. (Fonti: Censis.it, Vita.it)

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